Dall’Università di San Marino a un prestigioso studio di Milano: i dubbi, le sfide e le soluzioni di una ragazza passata da studente a stagista, in una nuova città
Forse per qualcuno è un giovedì qualunque, ma non per me. Sono le 13:09 del 4 settembre 2025 e il Frecciarossa 3809 è appena arrivato a Milano.
Emozionata? Eccome!
Il motivo? Sto per iniziare il mio tirocinio.
Neanche il tempo di scendere dalla carrozza che mi sento travolta dalla frenesia di questa città. Gente che corre da tutte le parti, alcuni con apparente foga, altri con disinvoltura, oppure disinteresse. Io cerco di stare calma: un bel sospiro profondo. L’aria è fresca. Mi piace.
Per me è l’inizio di una nuova avventura, nel percorso che mi vede impegnata al secondo anno del corso di laurea magistrale in Interaction & Experience Design dell’Università di San Marino.
Ma prima, un passo indietro. Anche bello grande.
Come sono finita qui?
Beh, lo stage è obbligatorio, quindi non è una scelta. Il posto in cui viene svolto invece sì. E individuarlo non è così facile: sospetto che il vero lavoro sia proprio questo.
Si tratta di una vera e propria ricerca, nella quale occorre bilanciare due principali aspetti. Cosa si vuole fare e dove. L’attenzione è quindi sulle proprie competenze, sulle attività che ci si aspetta di svolgere e sulla città in cui si vorrebbe andare a lavorare.
Il percorso per me è iniziato nel febbraio scorso, quando i tutor del corso di laurea ci hanno fornito una lista di possibili destinazioni in Italia e all’estero. È stato d’aiuto, certo, ma con il rischio di perdersi. Ci sono oltre cento opzioni e molte sembrano bellissime. Incasellate in un file excel, fanno venire le vertigini.
La scelta
La prima domanda che ho rivolto a me stessa: provare a inserirmi in un luogo che avrebbe ulteriormente affinato le competenze che già sentivo di avere, oppure cercare di espanderle con qualcosa di nuovo, più stimolante ma allo stesso tempo sconosciuto?
Mi sono riempita di coraggio e ho scelto la seconda strada. In fin dei conti questa poteva essere un’occasione per sperimentare. Sia nel lavoro che con me stessa. In maggio, circa tre mesi dopo aver ricevuto la lista dai tutor, ho evidenziato in giallo un nome ambizioso. Studio Azzurro.
Per chi di Design ne mastica poco, si tratta di una realtà che nella progettazione di spazi e allestimenti (per trasmettere per esempio storie e identità in mostre e musei) è stata ed è all’avanguardia. Con uno spirito pionieristico.
Uno dei fondatori di Studio Azzurro aveva curato, all’Università di San Marino, un workshop al quale avevo partecipato. Così, mi sono convinta.
Toc toc: posso entrare?
Da un primo giro di mail, che ha coinvolto anche lo staff del mio corso di laurea, è emerso che per candidarmi avrei dovuto consegnare un portfolio. Di qui una corsa contro il tempo: ci ho lavorato una decina di notti, prima di decidere che era pronto. Faticoso? Sì, parecchio!
L’ho inviato ed è arrivata la richiesta di un colloquio online. La mia prima reazione: cosa mi chiederanno? Ho riguardato il portfolio e mi sembrava di non ricordare niente dei miei progetti. Panico! Mi sono preparata un discorso, senza nemmeno sapere se sarebbe servito.
Il colloquio
Il 17 giugno mi sono collegata per il meeting. Mi hanno chiesto cosa sapevo fare, quali erano le mie conoscenze, i gusti, le attitudini. Poi la notizia: mi avrebbero presa!
Tutto fatto? Affatto!
Calato il sipario su un’ansia, se n’è aperto uno nuovo che ne nascondeva altre mille: dovevo trovare un posto in cui vivere. O almeno, un letto dove dormire. E per farlo avevo appena otto settimane.
Casa cercasi
Mi sono fiondata su internet per capire dove si trovava di preciso lo studio: a Chinatown, a pochi passi da via Paolo Sarpi. A detta di chi conosce Milano, si tratta di una delle zone più esclusive della città. Bella, quindi. Ma anche cara. E super richiesta.
Avrei voluto esplorare altre aree, ma non avevo riferimenti. Così mi sono affidata a Instagram: ho pubblicato una storia per chiedere aiuto. Mi hanno contattata in pochi e non come speravo.
Lungo luglio
Lontana dal mare e dalle spiagge, luglio per me è iniziato con un’imprevista performance a tempo pieno che ha incrociato esperienze da call center e agenzia immobiliare. Ho in qualche modo raccolto 40 numeri di telefono e li ho bombardati. Per una stanza singola sono spuntate richieste da minimo 800 Euro al mese, spese escluse. Ai ai ai.
La svolta
Poi una ragazza che già lavora a Studio Azzurro, Erica, mi ha allungato una decina di contatti che, secondo lei, potevano fare al caso mio. Bingo, perché una ragazza di Rimini sapeva di una singola a 650 Euro in zona Porta Romana, davanti alla metropolitana, a poche fermate dal Duomo. Ho chiamato, mi sono fatta inviare qualche foto, mi ha convinto, ho confermato. Era fatta.
Mi piace Milano?
Sarò onesta: la prospettiva di venire a Milano non mi convinceva. Strutture imponenti ma anche opprimenti, cemento, traffico, gente che pensa agli affari e va di corsa: questa l’idea che avevo in mente.
Io vengo dall’entroterra marchigiano e studio a San Marino, realtà ben diverse, quasi opposte. Verde, non grigio. Quiete e contemplazione, non frenesia e istinto.
I dubbi si sono fatti più insistenti a tre settimane dalla partenza, quando alle perplessità sulla città si è aggiunta l’ansia da prestazione. Sarò capace? Verrò valorizzata? Riuscirò a dare un contributo? E se al termine del tirocinio dovesse emergere l’opportunità di lavorare a Milano, accetterò?
Amici miei
Visto che i miei viaggi mentali non si placavano, ho parlato con alcuni amici che, prima di me, sono partiti per motivi di studio e alla fine non sono più tornati. Ma anche con qualche milanese di nascita.
Mi spaventavano i costi, le difficoltà nell’instaurare rapporti solidi, la facilità di lasciarsi trasportare dai ritmi del lavoro e perderne il controllo.
Parlando con le mie conoscenze ho capito che c’è un equilibrio. Milano è frenetica? Certo! Psicotica? Assolutamente. Ma c’è anche tanta voglia di fare, di condividere. Energia, ispirazione. Diverse realtà culturali con cui confrontarsi.
Mi sono sentita un po’ meglio. Forse Milano poteva funzionare.
Cosa mi porto?
È così arrivato il momento di preparare la valigia. Sarei stata via per tre mesi filati, senza tornare a casa, per risparmiare sulle trasferte.
Vedevo il tirocinio come un ponte fra la vita da studentessa e quella da professionista. Così dall’armadio ho pescato gli indumenti più formali. Qualcosa per proteggermi dalla pioggia, perché aveva idea che lassù fosse spesso piovoso. Su internet però diceva che sarebbe stato caldo, così ho tolto qualche maglioncino e messo più magliette. Due paia di scarpe comode, perché avrei dovuto camminare. Con me anche uno zaino con dei libri e un computer portatile: a Milano, oltre a svolgere lo stage, avrei dovuto scrivere la mia tesi magistrale.
Tutta questa roba non ci stava in una valigia. E c’era una seconda lista da assecondare. Ne riporto alcune voci.
– Piumone matrimoniale leggero 1 piazza e mezzo
– Asciugacapelli
– Salsa di pomodoro della mamma
– Olio buono
– Gel igienizzante mani
– Macchina fotografica + rullino
– Astuccio
– Cuffie
La soluzione: queste cose me le sarei spedite. Anzi, l’avrebbero fatto i miei genitori.
Si parte
Il giorno della partenza sveglia alle 7. Apro gli occhi e guardo il meteo. A Milano c’è il sole, 26 gradi di massima.
Yogurt, cereali e caffè. Dalla finestra della cucina osservo le colline dell’entroterra marchigiano e già mi viene nostalgia. Chissà come sarà vedere solo palazzi, tram e vetrine?
Sto per andare in sbattimento, ma me ne accorgo e mi sforzo per interrompere il flusso malefico. Potrei stare via per appena tre mesi. E poi partire prevenuti e precludersi la possibilità di lasciarsi andare è sbagliato. O no?
La voce di mio padre mi riporta sul pianeta terra: “Siamo pronti?”
Alle 9:30 siamo in stazione a Pesaro, binario 3, c’è il tempo per un secondo caffè. Anzi di più, perché il treno è in ritardo di mezzora. La valigia è grande e pesante, nel mio vagone non ci sta. La lascio in un vano due carrozze più avanti. Poi mi siedo. Posto 14D.
Non si torna più indietro. Almeno per un po’.
Come mi sento? Come quelli che hanno paura di volare, ma lo fanno lo stesso. Prima di imbarcarsi è un incubo. Ma poi, quando l’aereo si stacca da terra, ci si rilassa. Ormai è andata. Quel che sarà, sarà.
Testo e foto di Amelia Messina