Studiare all’università prima dei social: incubo o felicità?

Per capirlo abbiamo chiamato in causa due docenti dell’Università di San Marino: ci hanno parlato di una marea di imprevisti, ma anche di belle sorprese e forse meno stress

Essere studenti universitari oggi è diverso da 40 anni fa? E rispetto ai primi anni 2000?

Cos’hanno cambiato l’arrivo di internet, prima, e degli smartphone, poi?

Per farmi un’idea dell’evoluzione ho parlato con due docenti del corso di laurea in Comunicazione e Digital Media dell’Università di San Marino, al quale sono iscritta.

La prima, Roberta Lorenzetti, insegna Tecniche di comunicazione interpersonale e all’inizio degli anni 80 ha studiato Filosofia a Bologna.

Il secondo, Paolo Odoardi, oggi è in cattedra come docente di Digital marketing. Anche lui ha frequentato l’Ateneo emiliano, fra il 1999 e il 2005. Scienze della Comunicazione alla triennale, Semiotica alla magistrale. Si è poi spostato negli Stati Uniti, a Cleveland, per un dottorato di ricerca.

Ecco le loro esperienze, che ho completato qua e là offrendo il mio punto di vista sul presente.

 

Innanzitutto: adesso è tutto più pratico?

Roberta Lorenzetti: Certo. Abbiamo una grandissima fortuna, che è quella di avere il telefonino. Comporta una grandissima facilità di sistemazione degli imprevisti, anche all’ultimo secondo. Però credo anche che in passato ci fosse una maggiore apertura rispetto alla variabilità della vita: se non andava in porto un piano eravamo comunque disponibili a fare altro. Anche per questo, eravamo più propensi a incontrare gente diversa e nuova. I rapporti umani erano più caldi, vivi. Di recente a casa di mia mamma ho trovato una miriade di lettere che ci scambiavamo tra amici, dal liceo fino a tutta l’università. Eravamo soliti scriverci soprattutto durante le pause estive, quando ognuno tornava nelle proprie zone di residenza.

Paolo Odoardi: Si improvvisava di più. Frequentavo molto la biblioteca, e con certe persone ci si incontrava semplicemente per il fatto di essere lì. Studio a parte, se con gli amici ci si era accordati per partire da un certo posto alle sette e qualcuno non arrivava, si andava senza di lui e buonanotte. Non c’era modo di contattarlo. Mancava poi la parte fotografica del vivere un’esperienza e condividerla subito, come si fa ora sui social. I rullini avevano 12, 24 o 36 scatti. Se eri in vacanza li portavi a stampare o facevi le diapositive, da proiettare con gli amici. In ogni caso, sicuramente c’era meno ansia. I miei genitori non sapevano dove fossi fino a quando non tornavo a casa.

Giulia Bencivenga (io): Secondo me il cellulare dal punto di vista organizzativo è un grande vantaggio: mandi un messaggio e via. È molto pratico. Allo stesso tempo bisogna stare attenti a non essere dipendenti da questa comodità e limitare i rapporti con le altre persone dal vivo. Per quanto mi riguarda penso sia la modalità più semplice, basilare e migliore.

 

Come vi tenevate in contatto con i prof?

Roberta Lorenzetti: Noi andavamo in facoltà ed era Bruno, il nostro bidello, a gestire i fogli dei ricevimenti. Si chiedeva a lui quando un professore era reperibile e ci si iscriveva. Poi si andava di persona all’appuntamento.

Paolo Odoardi: Esisteva la casella di posta elettronica: era quello il mezzo da utilizzare. Poi ci si incontrava dal vero.

Giulia Bencivenga (io): Oggi continuano a funzionare le email, inviate da fisso, portatile o telefonino. La più grande differenza sono le videocall, che permettono un colloquio anche a distanza. 

 

Per vedersi con gli altri studenti, oppure gli amici, come funzionava?

Roberta Lorenzetti: Non c’erano i cellulari, per cui si sfruttava il metodo “da fisso a fisso” o “da cabina telefonica a fisso”, con tutte le variabili del caso. Ricordo che un giorno mi ero organizzata per uscire con degli amici, avevo preso l’autobus per andare in centro a Bologna e proprio quando sono arrivata è scoppiato un temporale molto forte. Mi sono chiesta: “E adesso cosa faccio?” Ho aspettato gli altri per 45 minuti, ma non s’è visto nessuno. 

Paolo Odoardi: Ci si muoveva via SMS. Se eravamo un gruppo di cinque persone bisognava inviare altrettanti SMS proponendo qualcosa. Poi occorreva gestire e incrociare le singole risposte. Insomma, era un processo lungo e laborioso. Costava 10 centesimi a messaggio, quindi era potenzialmente impegnativo anche dal punto di vista economico. Le chiamate erano ancora più care. Venti anni fa telefonarsi costava un Euro al minuto e parlarsi per un quarto d’ora era parecchio caro. Spesso si provava a passare a casa di qualcuno, si suonava al campanello e via. Oppure ci si beccava in giro. 

Giulia Bencivenga (io): Adesso ci scriviamo su Whatsapp, dove abbiamo anche un gruppo del quale fanno parte gli studenti del mio corso. Per chiacchierare ci si becca anche nel parcheggio vicino alla sede del corso di laurea, o direttamente in aula. Con gli amici, al di là dell’università, uso anche Instagram, anche se secondo me è più scomodo. A me capita spesso di uscire e improvvisare, senza programmi prestabiliti. In questo, quindi, non trovo differenze abissali. Le telefonate non mi piacciono molto. Spesso ho il cellulare in modalità silenziosa e mi perdo pure le chiamate. 

 

Com’è stato scrivere la tesi di laurea?

Roberta Lorenzetti: La mia è stata battuta su una macchina da scrivere: una Olivetti. Dovevo stare attenta a non commettere errori. Prima scrivevo a mano su un foglio quello che avevo intenzione di comunicare e poi lo copiavo sull’Olivetti. Dopo portavo il capitolo battuto a macchina al professore, che faceva le correzioni a mano sul mio capitolo. A quel punto dovevo quindi riscriverlo. La tesi definitiva andava consegnata in una copisteria, che la ribatteva con una macchina professionale elettrica, poi la impaginava, stampava e rilegava.

Paolo Odoardi: Come adesso, penso. Per le ricerchi ti muovevi in biblioteca, con i libri cartacei anziché quelli digitali. Forse era meno pratico. 

 

Domandone: internet e i social aiutano oppure la questione è più sfaccettata?

Roberta Lorenzetti: Rispondo da persona che ha a che fare con circa 500 studenti l’anno. I social hanno numerosi aspetti positivi: hanno migliorato non soltanto la qualità dei contatti interpersonali, ma anche la circolazione delle informazioni, nonché l’apertura mentale intesa come espansione dell’orizzonte culturale e sociale. Ci sono anche grandi aspetti a sfavore, però: le persone vengono de-umanizzate rispetto al loro tempo e alla loro energia, che viene sprecata con l’utilizzo dei social. Siamo inoltre soggetti a uno tsunami di informazioni a cui veniamo esposti quotidianamente e questo è stressantissimo. Ci fa dubitare anche delle nostre stesse parole. Non abbiamo più fiducia neanche in noi stessi. I giovani cresciuti in questo contesto a volte sono confusi e smarriti: li capisco. Credo che il telefonino sia pervasivo, comporta una pressione psicologica non indifferente. Per non parlare poi del fenomeno dell’odio online, del bodyshaming e dell’aggressione di genere. Le nuove generazioni sono esposte a una quantità di aggressività molto elevata. In passato, nella mia esperienza, non era così. 

Paolo Odoardi: Nello studio, per noi il vero problema era trovare le informazioni: se non avevi una biblioteca a portata di mano, oppure un professore di riferimento, era davvero tosta. Poi si è trasformato tutto davvero velocemente, nel giro di pochi anni, con internet. Ora la difficoltà consiste nel saper filtrare le informazioni: sono troppe, quindi ingestibili. 

 

In chiusura: un ricordo particolare, legato agli aspetti che abbiamo affrontato?

Roberta Lorenzetti: Per fare le pratiche universitarie, qualsiasi fossero, non si procedeva online come succede ora. Bisognava andare in segreteria, dove gli orari erano sempre un rebus. Ci svegliavamo all’alba e ci ritrovavamo a fare file lunghissime. Se poi finiva l’orario di apertura, andavi via e tornavi il giorno successivo sperando in una fila più corta. Non ci si poteva prenotare e si stava in piedi per delle ore. Questa situazione diventava però un momento di socializzazione: a volte si potevano incontrare persone interessanti. Un aneddoto divertente riguarda poi l’iscrizione all’appello d’esame. C’era una lista cartacea in una bacheca. In teoria dovevamo scrivere il nostro nome sul foglio e basta. Ma cos’è successo? Alcune persone hanno cancellato il nome di altri e l’hanno sostituito col proprio. Così, in diversi siamo arrivati trovandoci spiazzati e con dei problemi, perché chi aveva previsto di prendere il treno a un certo orario per tornare a casa, per esempio, era fritto. Poi per fortuna è intervenuto Bruno, di cui ho parlato prima. La lista ha iniziato a custodirla lui.

Paolo Odoardi: Quando sono andato negli Stati Uniti, nel 2008, mi è successa una cosa che non mi aspettavo. Ero abituato a contattare la gente inviando un SMS o chiamando. Ero in una classe di circa 15 persone e avevo già Facebook. Così ho mandato un invito un po’ a caso, per una festa, senza però nessuna interazione diretta con nessuno. Tanto che pensavo fosse morta lì. Invece si sono presentati tutti: che sorpresa! In quel momento mi sono reso conto che i social potevano essere davvero utili.

 

Interviste di Giulia Bencivenga
Foto di Linda Flores, Davide Costanzo, Travis Nicholson, Steve Crane, Esther Vargas, Pabak Sarkar