Sei mesi da studente all’estero fra carne vegana, password misteriose e folletti magici

Gabriele Lunadei è stato il primo iscritto dell’Università di San Marino a sfruttare l’opportunità di un periodo di studio in Islanda: la sua avventura in 12 domande

Due valigie, una da cabina e l’altra da stiva. Un biglietto per volare da Roma a Keflavik, poi via in taxi verso Akureyri, la città del sole di mezzanotte, in Islanda.

Quanti sono gli aerei che partono ogni ora dall’aeroporto di Fiumicino? Chissà. 

La hostess del check-in chiede biglietto e passaporto, Gabriele Lunadei presenta le carte in ordine. Le generalità: 22 anni, residente a Molino di Bascio, nell’entroterra romagnolo. Occupazione: studente universitario.

Mese di gennaio, anno 2022. Quando la hostess restituisce il passaporto a Gabriele, un altro aereo decolla verso chissà quale meta. Quanti passeggeri, quanti piani, sogni, obiettivi si porta via? Fantasticare è un modo per distarsi, allontanare quella fastidiosa punta d’ansia che accompagna ogni fase di cambiamento.

Gabriele è il primo studente dell’Università di San Marino a sfruttare l’opportunità di un semestre nella realtà nordeuropea. Iscritto al secondo anno del corso di laurea in Ingegneria Gestionale, vive sulle sue spalle tutte le incognite dell’apripista. Di chi si avventura verso l’ignoto con quel particolare brivido di strizza ed eccitazione che tutti, forse, conosciamo.

Ora che è tornato, possiamo stilare con lui un bilancio. 

Perché partire?
Era un’opportunità per lasciare la mia comfort zone e vivere una situazione totalmente nuova che mi avrebbe potuto anche aiutare anche nella futura carriera lavorativa.

L’Islanda mi affascinava da sempre. E poi lì tutti parlano inglese. Era un’occasione in più per affinarlo.

Ansia, prima della partenza?
È stato il peggior momento di tutta la faccenda. Essendo la mia prima esperienza di studio all’estero non sapevo davvero cosa aspettarmi. Mi ero riempito di ansie e paranoie essenzialmente inutili.

Una volta partito, però, è svanito tutto.

Sapevo che sarebbe stata una cosa fantastica, ma allo stesso tempo avevo il timore di rimanere indietro dal punto di vista universitario e degli esami.

Le due valigie con cui sei partito: erano fatte bene?
Non proprio. Ho portato più vestiti del dovuto, alcuni neanche li ho usati.

Com’è stato l’impatto con la realtà accademica islandese?
L’università di Akureyri, la seconda più grande del Paese, conta circa 2.000 studenti. Non tantissimi, quindi. Questo però non comporta poche infrastrutture, anzi. Ci sono mensa, dormitori per studenti stranieri, una palestra gratuita aperta giorno e notte, una biblioteca, bar e moltissime sale studio. Una struttura molto moderna e con un simpaticissimo personale.

L’esperienza in aula?
L’università in Islanda è veramente una goduria. I docenti e il personale hanno uno stile molto informale. Per dirne una: i prof si fanno chiamare per nome e non cognome.

Credo che un sistema molto flessibile di insegnamento permetta allo studente di riuscire a combinare lo studio con la vita sociale. Nel mio caso, penso per esempio alla possibilità di visitare tutta l’Islanda senza perdere lezioni o nozioni importanti.

Problemi o incertezze?
Una volta, durante l’inizio di un esame scritto, le persone incaricate di assicurarsi che non vengano commesse infrazioni ci hanno comunicato la password di inizio prova in lingua islandese.

Io e gli altri stranieri non abbiamo capito nulla e non abbiamo iniziato la prova. Per di più gli esaminatori non parlavano inglese. Abbiamo dovuto chiedere ad altri studenti islandesi di fare da interpreti e spiegarci nel dettaglio la password. Credetemi, è stato un episodio divertente.

Popoli a confronto: cos’hai notato?
Rispetto agli italiani, gli islandesi sono più chiusi e riservati. Poche persone sono estroverse. Ma una volta rotto il ghiaccio, sono molto gentili e soprattutto onesti.

Nessuno, per esempio, mette la sicura alla bicicletta, perché nessuno prova a rubare niente. Spesso, anzi, ti aiutano avvertendoti se hai lo zaino aperto o hai lasciato il portafoglio sul tavolo.

È vero che in Islanda non aspettano Babbo Natale, ma hanno altre tradizioni?
Dal 12 dicembre ogni giorno viene esposto un jolasveinar nel centro della città. Si tratta di ‘esseri’ considerati magici, delle specie di folletti che portano dolcetti a tutti i bambini. Ognuno ha il proprio nome e una caratteristica che lo contraddistingue.

Ad esempio c’è Gáttaþefur : si dice abbia un grosso naso e un gran senso dell’olfatto, che usa per individuare il “laufabrauð”, un tradizionale dolciume islandese, tipico del periodo natalizio.

Secondo me è davvero una figata!

Argomento rischioso, il cibo.
Sicuramente non c’è la nostra amata pizza, ma se ci si adegua non è un problema. Posso però garantire che nessuno studente straniero ha mai comprato carne. È super costosa! Abbiamo mangiato quella vegana, che è molto buona!

A livello umano, quali esperienze ti hanno colpito?
Un semestre del genere ti permette di stringere rapporti con gente da tutta Europa. Sono nati legami molto forti con diverse persone. Un po’ grazie all’università, un po’ nella metropolitana e nei bar.

Vivere tutto il giorno a stretto contatto con altre persone ti permette di legare come non mai. Sicuramente rivedrò i miei amici italiani conosciuti lì sul posto, ma anche alcune persone islandesi con cui si è creata una grande amicizia.

Ti mancano già?
È la parte peggiore, adesso. Passare dal trascorrere 24 ore al giorno con alcune persone e poi distaccarsi è un trauma. Ma fa parte del gioco.

La vedi come un’opportunità di crescita e maturazione?
Rispetto a quando sono partito ora mi sento cambiato, ho una mentalità diversa.

Un’esperienza come questa permette una crescita molto importante. Inutile dire che solo il fatto di uscire di casa per abitare da soli e non più con i genitori è già un traguardo importante, anche se non l’unico.

Riuscire a cavarsela con una lingua differente, integrarsi, adattarsi a qualsiasi evenienza. Sono tutti aspetti che ti permettono di crescere, anche involontariamente. In pochi mesi si corre molto di più che stando a casa.

Si dice che una volta vissuta una esperienza cosi non ci si ferma, che si cerca di andare via per studiare o lavorare alla prima occasione. Effettivamente, non vedo l’ora di poter ripetere qualcosa di simile.

Articolo di Rossella Spinelli
Foto di Gabriele Lunadei