Come porto lo yoga in università, e perché ci aiuta

Nell’Ateneo di San Marino la responsabile dei tirocini del corso in Design dà la priorità al benessere psicofisico, integrandolo nel suo lavoro: ecco come

Erano in cerchio, seduti sulle sedie che usano di solito per seguire le lezioni a occhi spalancati, attenti a ogni parola di chi sta in cattedra.

Ma quella mattina era il silenzio a possedere l’aula. Le palpebre, giù. Ogni studente seguiva il proprio respiro. Il flusso dei pensieri: un mare che da mosso era diventato calmo, liscio, pacifico.

Erano una dozzina, iscritti al corso di laurea magistrale in Design dell’Università di San Marino. Ognuno nella sua dimensione. A guidarli era Chiara Amatori, una ragazza in bilico fra gli ambienti accademici e le palestre. A volte chiamata a curare un workshop, come quel giorno. Altre, istruttrice di yoga. 

Le cose, come capiremo, si intrecciano parecchio. 

Quella mattina c’erano in programma delle attività particolarmente creative e lei voleva predisporre gli studenti al meglio. Non li aveva avvertiti: era arrivata in aula e aveva proposto al gruppo di meditare insieme.  

Qualche minuto più tardi, eccoli lì. I palmi delle mani sulle gambe. Sensibili alle sfumature dei suoni, agli odori. Alcuni, emozionati. Altri, rapiti. 

È bastato poco, per rovinare tutto. Uno studente arrivato tardi. Rumoroso, di corsa. La quiete, svanita in un niente. Ma l’effetto è stato comunque efficace. La distanza fra chi aveva fatto meditazione e chi l’aveva saltata era evidente: gli studenti ne sono rimasti colpiti.

Meditare, già: una di quelle cose per le quali non sembra esserci ostacolo, se non la volontà di farlo. 

Ne ho parlato proprio con Chiara, che non solo insegna all’università ed è istruttrice di yoga: fra le altre cose, è la responsabile del percorso che porta gli iscritti dei corsi di laurea in Design ai tirocini. 

Riminese, 28 anni, per lei lo yoga è uno stile di vita: qualcosa che incarna, insegna, trasmette. 

Incontrarla è stata un’esperienza sicuramente inaspettata e rivelatoria. 

Ecco cosa ci siamo dette.

 

Cosa rappresenta, per te, lo yoga?

Prendere del tempo e attribuirgli il giusto valore. Viviamo in una società frenetica nella quale si corre tanto e non ci si ascolta mai. 

Fermarmi, lasciare che i pensieri riescano a sedimentare e liberarmi da ciò che ho accumulato: ecco cosa cerco. È una forma di liberazione e riconnessione con me stessa, 

È un momento che mi prendo. Solo per me. Voler bene al proprio corpo e fare movimento è indispensabile. Occorre muoversi e soprattutto ascoltarsi di più. 

Una dimensione intima, quella che hai descritto: poi però all’università hai a che fare con un sacco di gente. Il fatto che pratichi yoga ti influenza?

Mi ha permesso di entrare in ascolto: prima nei miei confronti, poi verso gli altri, studenti in primis. Guardarli negli occhi, sentirli, capire i loro bisogni, confrontarmi in maniera costruttiva. Visto il mio ruolo, qui a Design, sono cose fondamentali. 

 

Sembra un sogno: la persona che ti aiuta a scegliere lo stage è una grande ascoltatrice. Non è affatto scontato: come funziona?

Gestisco circa cento studenti alla volta, iscritti all’ultimo anno del percorso triennale. All’inizio del primo semestre facciamo due incontri di gruppo in cui spiego come funzionano i tirocini. Per ciascuno è previsto un percorso di 400 ore. 

Poi incontro i ragazzi uno per uno. Due volte. Preparo con loro i portfolio, cioé la raccolta dei progetti con cui si presenteranno e alle aziende chiamate a sceglierli: parliamo di realtà come l’Agenzia Spaziale Europea (ESA), Philips e Poltrona Frau.

 

Schematizzando, quindi, vi incontrare quattro volte, di cui due individualmente.

Sì, nel primo colloquio chiedo allo studente cosa si aspetta e soprattutto cosa vuole dal tirocinio, cose di questo genere. 

Devo capire se vuole restare in Italia o andare all’estero, in quale ambito vorrebbe lavorare. E poi, ultimo ma non per importanza, voglio capire chi è. In ballo c’è una tappa fondamentale del percorso di studi. Il momento in cui si passa dall’aula all’ufficio, dall’università alle aziende.

Gli studenti in genere hanno le idee chiare?

La maggior parte è a metà strada, indirizzata ma indecisa. Agli estremi ci sono quelli che sono sicurissimi o che si sentono persi. Non è una scelta facile. 

 

Come funziona, con chi è in difficoltà?

Non è un problema, ma c’è da lavorare. E da parlare, soprattutto. Per esempio, devo capire se una persona è più adatta a grandi contesti oppure no, a livello caratteriale. In ogni caso, nei casi peggiori arriva il momento in cui sono io a formulare delle proposte, e lì di solito tutto diventa più chiaro.

Ci sono dei punti fermi, comunque: cerco di aiutare gli studenti nello schiarirsi le idee, senza fare le cose per loro. È un accompagnamento. I contatti con l’azienda, per esempio, li devono prendere in autonomia, facendosi avanti. 

 

Torniamo allo yoga: prima di incontrarti ho parlato a qualche compagno di università di questa intervista e sono emersi degli stereotipi. Per esempio: “Non serve a niente”. A te capita mai?

Sì, a volte viene etichettato anche come ‘troppo spirituale’. Oppure, considerato ‘una specie di stretching’. Che dire?

 

Sei sempre stata così riflessiva?

No, ero molto irrequieta e impulsiva. Convintissima delle mie idee, restia a cambiarle. È una parte che ho ancora, e a cui tengo. Ma inserita in una dimensione più ampia. Ora riesco ad ascoltare e aprirmi verso gli altri. A comunicare in maniera più completa. Ad ogni modo, non credo che lo yoga mi abbia ‘salvata’ o fatto capire tutto. È uno strumento in più a mia disposizione. 

Lo ritieni comunque di grande aiuto nel tuo lavoro, giusto?

Influenza ciò che sono e come affronto le cose. Alcune volte, in periodi di alto stress lavorativo o quando sento il bisogno di capire quali sono le mie priorità, è un bel salvagente. Lo yoga mi accompagna spesso, non è qualcosa che faccio durante le lezioni e basta, sia da allieva che da istruttrice. Anche quando mi lavo i denti, mi metto in posizione di equilibrio.

 

Per chiudere e tenendo conto di quanto ci siamo dette: avrebbe senso introdurre lo yoga nelle università in maniera costante o addirittura istituzionale? 

Beh, sarebbe il mio sogno. Yoga e meditazione renderebbero questa qualsiasi università, questa inclusa, veramente all’avanguardia.

Garantirebbero un migliore atteggiamento di cura e rispetto per il proprio corpo e la propria mente. 

Quando ero una studentessa e frequentavo proprio questo Ateneo, a San Marino, mi chiedevo spesso perché non ci fossero delle attività di questo genere per noi iscritti. E ancora non avevo iniziato a praticare yoga. 

Stare seduti per tante ore al computer, sui libri, oppure lavorare per lunghe sessioni sui progetti insieme ai colleghi: a volte diventava alienante. Sei anni più tardi torno in questa università rispolverando quel piccolo obiettivo. Ma adesso mi sembra più alla portata: chissà, magari ci riusciremo davvero.

 

Articolo di Giulia Bencivenga
Foto d’apertura di Alice Molari