L’Università di San Marino offre agli iscritti la possibilità di fiondarsi a Tokyo: il racconto di chi l’ha fatto
La stanza di due studenti europei impegnati in un semestre di studio a Tokyo, una giungla nella metropoli. In miniatura, ovviamente: appena dodici metri quadrati arredati con il minimo indispensabile, mentre sul pavimento c’era il massimo del caos, così tanta roba che a volte non si intravedeva nemmeno la superficie del parquet.
Ogni mattina, dopo essersi svegliato alle 5, Francesco Grandicelli scendeva dalla zona superiore del letto a castello e cercava di non calpestare niente di troppo rumoroso, evitando suoni di croc e di crac. Sul materasso di sotto riposava il suo compagno di stanza, e lui mica lo voleva disturbare.
Dopo essersi preparato con la delicatezza di un felino, un’ora più tardi, era all’ingresso della palestra in cui praticava calistenics, una disciplina nella quale, fra i vari esercizi, ci si appende a una barra e si sta col corpo orizzontale, dritti come righelli, oppure ci si mette a bandiera, un palo verticale come unico sostegno.
Originario di Lunano, cittadina di nemmeno 1.500 abitanti vicino a Urbino, il 22enne marchigiano si trovava in Oriente per frequentare la Tokyo International University, alla quale era stato assegnato nell’ambito delle opportunità all’estero offerte dal corso di laurea in Ingegneria Gestionale dall’Ateneo di San Marino, dov’è iscritto.
La sua esperienza è andata ben oltre i libri e le lezioni. In Giappone si è infatti misurato con una cultura parecchio distante da quella mediterranea, con costumi e abitudini che richiedono parecchia elasticità mentale.
Vivendo là è stato costretto a elaborare diversi stratagemmi, come la preparazione dei pasti su piani cottura disposti in due diversi appartamenti, guardaroba che evitassero lo scandalo provocato dai suoi tatuaggi e, come accennato, sveglie all’alba necessarie per fare sport.
La mia chiacchierata con lui inizia proprio da questo aspetto.
Perché andavi in palestra così presto?
Il calistenics si pratica principalmente a corpo libero. Per i giapponesi però è un problema, perché non concepiscono gli allenamenti senza attrezzi. Vedermi fare la verticale, nella quale mi sostegno sulle braccia mentre i piedi puntano in alto, li metteva in allarme. Temevano per la mia incolumità. Sono stato ripreso diverse volte per aver avuto dei comportamenti ritenuti poco sicuri. Allora ho iniziato ad andare all’alba, quando non c’era nessuno.
A parte questo, com’era stato l’impatto col Giappone?
Sicuramente stimolante e pieno di sorprese. Non una passeggiata, però. Direi piuttosto una sfida. Benché sia un Paese con oltre 100 milioni di abitanti, è una realtà che può farti sentire solo. Le persone sono timide e schive, rispetto agli italiani. A fronte di tante cose positive e all’energia che si sente arrivando in un posto mai visitato prima, questo è stato l’ostacolo più duro. Ma l’avevo messo in conto. Non volevo lasciarmi scappare l’opportunità di scoprire un nuovo continente. Nella vita, vedere il mondo e scoprire nuove culture è il mio principale obiettivo. In passato ho girato molto per l’Europa, poi gli Emirati Arabi. Ho anche avuto modo di conoscere la cultura americana.
A lezione come ti sei trovato?
A San Marino non c’è l’obbligo di frequenza e ciò permette a chiunque di organizzarsi in autonomia. In Giappone, invece, avevamo le lezioni obbligatorie, con verifiche a metà del corso e interrogazioni, la cui media poi veniva sommata con quella dell’esame finale. È un sistema più vicino a un liceo, forse.
In generale, in caso di necessità ero supportato da un tutor all’interno dell’università e da altri due nei dormitori.
Problemi con la lingua giapponese?
Le lezioni erano tutte in inglese, ero in una classe internazionale.
E gli esami?
Avevo scelto i corsi insieme al vice direttore del mio corso di laurea a San Marino, quindi sapevo cosa aspettarmi. Si è trattato di micro economia, machine learning e management. Fare attenzione durante le lezioni e interagire col docente dava una marcia in più, anche perché al voto finale contribuiva l’attenzione e la partecipazione in aula, oltre alla media delle verifiche e alla prova finale.
Torniamo alla cultura giapponese.
Ci sono stati episodi bizzarri. Nella metropolitana, per esempio, vige un silenzio quasi assoluto. Ho ricevuto occhiate di fuoco per aver fatto un po’ di rumore o risposto al telefono. Nessuno però osa dire nulla, è una disapprovazione che si esprime così, pacatamente.
Poi i tatuaggi: vengono associati ai malavitosi, così sono stato costretto a indossare la felpa anche nei mesi caldi. Nelle terme non potevo entrare.
All’inizio è disorientante, ma poi ci si prende le misure. Quella che io descrivo come ‘rigidità’ permette a tutto di funzionare con efficienza. I giapponesi hanno un grande rispetto delle regole verso gli altri individui e verso la comunità.
Ci sono anche lati positivi, quindi.
Penso a Tokyo e alla sicurezza per strada. Le persone attraversano senza togliere gli occhi dal tablet, non controllano nemmeno se arriva qualcuno, con massima fiducia e senza curarsi di chi o cosa le circonda.
Hai viaggiato?
Dopo gli esami, insieme a degli amici, siamo stati ad Okinawa. Si tratta di un’isola tropicale quasi deserta e priva di trasporti. Per raggiungerla abbiamo dovuto prendere un aereo, un volo di tre ore. Là ci sono un sacco di americani, che sono coinvolti fra l’altro in alcune simulazioni militari. Così ci capitava di svegliarci di mattina al suono di alcune esplosioni. Boom.
Siamo stati anche a Osaka, Nara e Kyoto. Architetture tradizionali, foreste di bambù, templi bellissimi.
Sul fronte del cibo come sono andate le cose?
La cosa più divertente è stata sicuramente ordinare i sushi in un ristorante dove ti servono i piatti con un trenino. Un’altra sera invece abbiamo avuto come cameriere un robottino, che serviva i piatti ordinati dal tablet, con un click.
Al contempo, la mancanza di contatto umano si è fatta sentire. A cena fuori ero sempre in compagnia, ma mi è mancato farmi consigliare da un cameriere oppure essere servito da una persona in carne e ossa.
Il tuo appartamentino?
Un monolocale con un letto a castello, una cucina con un solo fuoco e un bagno. Lo dividevo con un ragazzo belga di origini giapponesi.
Com’è andata la convivenza?
All’inizio ci siamo dovuti adattare l’uno all’altro. Ancora ci sentiamo e spero a breve di poterlo andare a trovare. Spesso, da bravo italiano, cucinavo la pasta per tutti. Ma era un’impresa. Avendo un suolo fuoco, dovevo fare la spola dalla nostra stanza a quella accanto, di alcuni amici, per preparare il sugo. Poi mangiavamo nella zona comune, tutti insieme.
Un’abitudine che ti porti dal Giappone?
Ho sostituito la pasta e il pane con il riso. Non lo so cucinare come i nipponici, che sono veri maestri, ma ho comunque imparato ad apprezzarlo.
Intervista di Silvana Maria Bonavita
Foto di Francesco Grandicelli