Dall’Università di San Marino alla California, il viaggio pieno di sorprese di una ragazza volata negli USA per una ricerca
Agosto giorno sedici, la scorsa estate. Caldo, quasi quaranta gradi. Non umido come sulla riviera romagnola, però. Non mette KO.
Chiara Nascioli è appena arrivata in California, alle spalle 13 ore di volo da Bologna con scalo a Monaco. Una borsa, uno zaino e una valigia, un po’ d’affanno e tanta adrenalina.
È l’inizio di un’avventura che durerà oltre cento giorni, nella quale la 22enne originaria di Ponte Messa, nell’entroterra romagnolo, sarà immersa in un campus da 40mila studenti. Per lei, abituata ad aule con al massimo qualche decina di persone, è un mondo tutto nuovo. Lingua, facce, usanze e credenze. Ci vorrà coraggio, anche pazienza.
Chiara è arrivata negli Stati Uniti attraverso l’Università di San Marino, dove studia Ingegneria Civile. Trascorrerà le sue giornate in laboratorio per una ricerca necessaria alla sua tesi di laurea, lavorando con materiali innovativi da usare nelle colonne dei ponti in cemento armato.
Qualche giorno dopo, quando mette per la prima volta piede nel campus della San Diego State University, si trova davanti a una marea di studenti, ognuno con una cartina in mano. Sono tutti nuovi, proprio come lei. Se ne accorge subito: lì non è come a San Marino o Ponte Messa, né Rimini o forse Bologna. È dall’altra parte del mondo. Tutto diverso. Vasto.
Chiara è tornata prima di Natale e qualche settimana fa ha discusso la sua tesi. L’ho incontrata per capire cosa le è rimasto dell’esperienza americana.
Ecco cosa ci siamo dette.
Innanzitutto, come ci sei arrivata a San Diego?
Grazie al contatto di un prof dell’Università di San Marino, il relatore che mi seguiva per la tesi, con una collega della San Diego State University, Gloria Faraone. Molto carina e disponibile, forse abituata ad avere a che fare con gli studenti stranieri, è stata la mia persona di riferimento e mi ha aiutato prima e durante l’esperienza. Per le pratiche del visto, per trovare la prima casa e via dicendo.
Qual era la tua routine?
Fino alle 9:30/10:00 la città non si sveglia e non inizia neppure la vita universitaria. Mi alzavo alle 9, con calma, colazione e poi via in laboratorio, dove il tempo volava. Pausa pranzo attorno alle 12:30, poi ancora al lavoro fino alle 18. Non di venerdì, però: nel pomeriggio il campus si svuotava e le spiagge si riempivano. Sarà che lì non ci sono le quattro stagioni e si vive un’estate perpetua. Ti porta a volerti rilassare di più.
Hai parlato di spiagge: come nei film?
Sì, al 100%. Era come essere in una pellicola americana. Le automobili con la tavola da surf sul tetto, per esempio. Molto diverso dall’Italia: noi al mare siamo abituati a vedere tutto attrezzato, con gli stabilimenti, i bagnini e via dicendo, mentre lì sono per lo più spiagge libere.
Anche nel campus, c’era aria da film. Soprattutto nella via con gli edifici delle confraternite, con le lettere greche. La più bella si chiamava ΦΚΘ.
Hai fatto surf?
La tentazione c’è stata, ma poi ho visto altri ragazzi cadere in continuazione e ho preferito lasciar perdere. Contemplare l’oceano, invece, mi ha dato una sensazione unica. Di infinito, direi. Ha un colore particolare. Il nostro è un mare azzurro. Quello è blu scuro, quasi nero.
Che facevi nei fine settimana?
A volte la turista. Sono stata a Los Angeles, a San Francisco e al Yosemite National Park. Sempre in autobus. E poi gli Universal Studios, a Hollywood. Sveglia alle 6:30, poi alcuni amici mi sono passati a prendere e siamo arrivati al punto di ritrovo. Ci sono volute circa due ore di corriera, per raggiungere la destinazione. Ho trascorso la giornata con una ragazza francese e una brasiliana. Ricordo il castello di Harry Potter a grandezza naturale e la neve che scendeva dal cielo, sembrava di essere proprio dentro al film. Le ciambelle giganti dei Simpson, l’hamburger di Krusty. Siamo tornate a casa convinte che esista una vera magia, a Hollywood.
Com’è andata con la lingua?
All’inizio con i miei coinquilini le incomprensioni non sono state rare. Ho usato Google traduttore anche per domande banali del tipo: cosa prepariamo per cena? Poi sono migliorata.
Parlami delle famosissime feste americane con i bicchieri rossi.
Una ogni weekend, nel campus due o tre la settimana. Spesso a tema, per esempio Halloween o Natale. Nel centro dedicato agli studenti internazionali erano divise per nazioni, per scoprire le diverse culture. A stupirmi è stata la cena del Ringraziamento. Hanno cucinato per 40mila studenti ed era squisito.
Com’era il campus?
Meraviglioso, specialmente perché davvero grande. Ci trovavi biblioteche, sale da bowling, piscine, palestre, cinema, teatri e tanto altro.
Le mille possibilità per i pasti, poi: diversi bar, un paio di Starbucks, una mensa (con cibo non proprio salutare) e una zona con diversi stand, dove si trovavano tacos, hamburger, insalate e burritos.
Poi ci sono un supermercato, vari ristoranti, una palestra, la piscina, il campo da baseball, basket, tennis e via dicendo. Le strutture sono disponibili anche nei weekend. È tutto a portata di mano.
Ha contribuito a sviluppare in te un certo senso di appartenenza?
Certo. Come tanti tenevo il cordellino del badge fuori dalla tasca del pantalone o della felpa perché fosse visibile. L’abbigliamento dell’università, come cappellino e felpa SDSU, veniva usato tutti i giorni. Un modo per riconoscersi.
Social, numero di telefono e messaggistica. Quali sono le differenze rispetto all’Italia?
Il profilo Instagram è la prima cosa che si chiede, oltre al nome e alla nazionalità. Il social più usato rimane comunque Facebook, che da noi invece è ormai sepolto.
Per comunicare sfruttavamo principalmente WhatsApp, anche se gli americani usano molto i messaggi normali.
È stato facile farsi degli amici?
Ho legato molto con altre persone straniere venute dall’Europa e dal resto del mondo. Erano lì per studiare come me. Eravamo arrivati tutti ‘soli’, quindi abbastanza spinti dalla voglia di fare amicizia in fretta. Alcuni li ho conosciuti alle feste, altri per esempio durante la pausa pranzo.
Gli ‘stranieri’ facevano amicizia fra loro e c’era una sorta di barriera virtuale rispetto agli studenti americani?
All’inizio pensavo di sì, ma non è stato così. Ci sentivamo tutti uguali.
È stato difficile dirsi addio, specialmente con i nuovi amici?
Ho fatto il volo di ritorno insieme agli altri europei, fino a Monaco. Il clima era da gita di quinta superiore, bellissimo. Scesi dall’aereo ci siamo spostati verso il tabellone delle partenze e quando sono usciti i numeri dei gate, tutti diversi, c’è stato il silenzio generale. Abbiamo capito che era finita. È stato l’ennesimo aspetto di questa avventura da film, in fin dei conti. Ogni tanto ci sentiamo, però. Chissà che non ci sia un sequel.
Intervista di Francesca Coppola
Foto di Alice Molari e Chiara Nascioli